PRIMERA CONFERENCIA, MIÉRCOLES 3 DE MAYO, 2 PM, FACULTAD DE DERECHO Y CIENCIA POLÍTICA, UNAL, BOGOTÁ. INVITA GRUPO PRESIDENCIALISMO Y PARTICIPACIÓN, Y CURSOS ASOCIADOS.
Gramsci e la rivoluzione russa
Guido Liguori. Profesor investigador, U. de Calabria. Presidente de la International Gramsci Society Italia. Editor con Pasquale Voza del Dizionario Gramsciano 1926-1937, la "biblia laica", de los Cuadernos de la Cárcel.
1. È forse opportuno iniziare con qualche breve notizia sulla vita e la
biografia di Antonio Gramsci, per capire bene la statura dell’uomo e
dell’intellettuale di cui ci occupiamo.
Nato ad Ales, in Sardegna, il 22 gennaio 1891, Antonio
Gramsci aveva trascorso una infanzia difficile, sia perché colpito in tenera
età dal morbo di Pott (una forma di tubercolosi ossea), sia per l’arresto e la
condanna al carcere del padre, accusato di irregolarità amministrative come
impiegato dell’ufficio delle tasse, nel 1894-1895, evento che gettò la famiglia
(numerosa) in una situazione di gravissime difficoltà economiche.
Costretto a sospendere lo studio dopo le scuole
elementari e a lavorare per due anni presso l’ufficio del catasto del paese
della madre, Ghilarza, dove la famiglia si era ritirata per cercare di
sopravvivere, il piccolo Antonio riuscì a riprendere la scuola, mostrando
grandi doti di intelligenza e volontà.
Dopo il liceo, frequentato dal 1908 a Cagliari, grazie
anche al fratello Gennaro, che lavorava presso la locale Camera del lavoro, nel
1911 Nino (come era chiamato da ragazzo) si era trasferito a Torino per
frequentarvi la Facoltà di Lettere e Filosofia, indirizzo di filologia moderna,
grazie al conseguimento di una borsa di studio che tuttavia non fu sufficiente
a evitargli stenti e sofferenze che caratterizzavano la vita di uno studente
povero, meridionale e proveniente dalla provincia, in una grande città
settentrionale e industriale come Torino.
In Sardegna Gramsci aveva iniziato a leggere libri e
riviste di quella cultura d’opposizione (al positivismo, e sul piano politico a
Giolitti e al giolittismo) che fu il terreno proprio della sua formazione:
- il meridionalismo di Salvemini
- le “riviste fiorentine” come «Il Leonardo» e «La Voce» di Papini e Prezzolini, che
agitavano motivi filosofici – dal neoidealismo al pragmatismo al bergsonismo – convergenti nella rivalutazione del “soggetto” contro
l’“oggettivismo” di matrice positivistica, che aveva influenzato le
principali correnti del socialismo del tempo.
All’Università di Torino Gramsci aveva subito poi
l’influenza di Matteo Bartoli, docente di glottologia, che voleva avviarlo agli
studi di linguistica e alla carriera universitaria, e dal quale deriverà sia
una impostazione di tipo storicistico, sia la convinzione della importanza del
«prestigio» culturale.
Accanto agli studi di linguistica, era stato rilevante
l’approfondimento del pragmatismo statunitense di William James; la lezione di
Georges Sorel, che ispirandosi anche a Henri Bergson aveva criticato il
movimento socialista ufficiale da posizioni di attivismo rivoluzionario;
l’incontro con il neoidealismo di Benedetto Croce, che stava determinando in
Italia una nuova egemonia culturale antipositivistica; la filosofia della praxis su cui avevano richiamato l’attenzione il
primo marxista italiano, Antonio Labriola, e il filosofo neohegeliano Giovanni
Gentile, studioso di Marx, che aveva sottolineato l’importanza delle marxiane Tesi su Feuerbach, che saranno uno dei
testi fondamentali per il Gramsci maturo, poiché in essi Marx aveva insistito
su una visione dialettica della
realtà, non sbilanciata né dal lato del soggetto e dell’idealismo né da quello
del mondo oggettivo e del materialismo.
Da tutte queste componenti della sua prima formazione
il giovane Gramsci aveva tratto soprattutto un aspetto fondamentale: il ruolo
della volontà, dell’azione soggettiva, della prassi per la trasformazione della realtà.
Il socialismo allora prevalente, economicistica e
determinista, evoluzionista e riformista, proprio del socialismo italiano e
internazionale, era incline a ridimensionare la funzione del soggetto
(collettivo) per esaltare le leggi oggettive (o presunte tali) della società e
della storia, con annesso il mito dell’inevitabile progresso e del trionfo
inesorabile del socialismo.
Esso sembrava escludere ogni ribellismo, ogni
volontarismo rivoluzionario, caratteri maturati in Gramsci nel clima delle
ingiustizie subite in Sardegna e a contatto con la sua terra, povera e
sfruttata al pari di una colonia, come più in generale l’Italia meridionale.
Il marxismo di Gramsci era allora in molti tratti
approssimativo, troppo influenzato dall’idealismo, troppo limitato nella
conoscenza di Marx (che inizierà davvero proprio dopo e a motivo dell’Ottobre),
ma era comunque vitale, innovativo, rivoluzionario, caratterizzato da una
torsione volontaristica e soggettivistica.
La Torino del tempo non era solo una capitale
culturale, era anche la più grande città industriale d’Italia. A Torino Gramsci
divenne definitivamente socialista,
incontrando la classe operaia di quella città – una delle classi operaie più numerose e forti dell’epoca, in una
città industriale dove andavano già nascendo colossi come la Fiat – e il
movimento socialista che da tale classe operaia traeva forza.
Gramsci si iscrisse al Partito socialista italiano tra
il 1913 e il 1914, il suo debutto
politico avvenne con un articolo intitolato Neutralità attiva e operante, pubblicato su «Il Grido del Popolo» il 31 ottobre 1914[1].
Lo scritto suscitò molte polemiche, poiché cercava di fornire una lettura “di
sinistra” delle posizioni di Mussolini, che stava rapidamente convertendosi a
favore dell’intervento nella Prima guerra mondiale.
In realtà Gramsci vi avanzava una posizione non molto
lontana da quella che – in modo certo molto più maturo e consapevole – aveva
espresso Lenin: i socialisti dovevano trasformare la guerra in una occasione
rivoluzionaria.
Isolato a causa della sua
presa di posizione e per qualche tempo in disparte, Gramsci rientrò ben presto
nella vita attiva del Partito grazie alla guerra, che a esso sottraeva quadri e
dirigenti.
Gramsci giornalista militante socialista si impose per
la vastità dei campi di intervento e per l’originalità delle sue lenti
analitiche.
Tutto
ciò che era volontà, attività del soggetto, iniziativa rivoluzionaria, era
importante per il giovane Gramsci. Non sorprende che, con questa impostazione
culturale e politica, egli vide nella Rivoluzione russa una conferma di enorme prestigio per le sue
convinzioni.
2. Quando arrivarono in Italia gli echi della prima rivoluzione russa del
1917, quella di febbraio (23-27 febbraio), secondo il calendario russo (perché
per il calendario occidentale la rivoluzione avvenne tra l’8 e il 12 marzo),
Antonio Gramsci aveva 26 anni, viveva a Torino e lavorava dal dicembre 1915 come
giornalista socialista, per l’edizione torinese dell’«Avanti!» (il quotidiano
organi del Partito Socialista) e per il settimanale dei socialisti torinesi «Il
Grido del Popolo».
La terribile guerra che sconvolgeva soprattutto
l'Europa dall’estate del 1914 e l’Italia dal maggio 1915 aveva già provocato
centinaia di migliaia di morti e costretto a durissimi sacrifici le popolazioni
civili.
Nel corso del 1917 il rifiuto della guerra avrebbe
scosso diversi paesi, provocando diserzioni, sommosse, rivolte.
Dal 22 al 27 agosto di quell’anno proprio a Torino
sarebbe scoppiata una grande “rivolta del pane”, un moto popolare spontaneo, il
più grande che si ebbe in Europa (eccezion fatta per quel che accadde Russia).
In seguito questa vera e propria rivolta una nuova
ondata repressiva si sarebbe abbattuta sui socialisti torinesi. La guerra
prima, con numerosi dirigenti e militanti chiamati sotto le armi, e gli arresti
seguiti alla “rivolta del pane” poi, favorirono l’emergere di Gramsci come
dirigente politico (egli divenne il maggiore dirigente della Sezione, o
federazione, Socialista di Torino) e come direttore del «Grido del Popolo», il settimanale
del Partito.
Già nei mesi e negli anni precedenti, tuttavia, egli
si era distinto per lo sguardo acuto e spesso anticonvenzionale con cui seguiva
e commentava quotidianamente gli avvenimenti sociali, politici e culturali
torinesi, italiani e anche internazionali.
Nella sua attività di giornalista militante Gramsci usava
un armamentario teorico e culturale anomalo per il socialismo del tempo. Sarà
proprio tale bagaglio che gli permetterà di sintonizzarsi immediatamente coi
fatti di Russia del 1917, di comprenderne – sia pure non senza ingenuità e
successive correzioni – la grande portata.
3. Fin dai primi commenti alla “rivoluzione di febbraio” Gramsci lesse
gli avvenimenti di Russia come la riscossa degli “internazionalisti”, dei
socialisti che non avevano tradito lo spirito dell’Internazionale, e vide nei
fatti di Pietrogrado una «rivoluzione proletaria»[2]
(«operai e soldati», specifica, dunque operai e contadini).
Non aveva del tutto torto, poiché all’origine della
“prima rivoluzione” del 1917 vi erano stati imponenti scioperi e manifestazioni
a partire dalle fabbriche dell’allora capitale della Russia zarista, come era
stato decisivo il passaggio dalla parte degli insorti di numerosi reparti di
soldati (cioè di contadini) che si unirono ai rivoltosi.
Quali per Gramsci i caratteri di fondo dell’evento?
La «rivoluzione russa» era per lui un «atto»
proletario soprattutto perché aveva «ignorato il giacobinismo», ovvero non
aveva «dovuto conquistare la maggioranza con la violenza»[3].
Fino al 1921 – quando muterà giudizio sulla base
dell’opera del grande storico francese Albert Mathiez, che sottolineerà
positivamente le similitudini tra giacobini e bolscevichi[4] –
Gramsci fu decisamente antigiacobino, influenzato nei suoi anni giovanili
soprattutto da Sorel, che aveva sostenuto esservi elementi di continuità
autoritaria tra giacobinismo e ancien
régime[5].
Il giacobinismo, la rivoluzione giacobina, erano per
Gramsci fenomeni borghesi, di una minoranza che «serviva degli interessi
particolaristici, gli interessi della sua classe»[6].
Invece i «rivoluzionari russi» non volevano sostituire
dittatura a dittatura e – egli sosteneva – avrebbero avuto, attraverso il
suffragio universale, l’appoggio della grandissima parte del «proletariato
russo», se solo esso avesse potuto esprimersi liberamente, senza essere
soggetto agli apparati repressivi dello Stato zarista.
Era, come si diceva, una visione piuttosto ingenua del processo rivoluzionario, sia
per quel che concerneva i fatti di Russia – in cui le forze della rivoluzione
erano in realtà molto più composite e divise al loro interno di quanto il
discorso gramsciano lasciasse intendere –, sia della possibilità che il
suffragio universale bastasse a garantire l’affermarsi della reale volontà del
proletariato, che il socialista rivoluzionario Gramsci sembrava intendere nei
termini di un «passaggio a una nuova forma di società»[7],
una società socialista.
Gramsci prescindeva qui – al contrario di quanto farà
con grande acutezza negli scritti maturi del carcere, ma anche, in parte, dal
periodo consiliarista dell’ «Ordine
Nuovo» – dai prerequisiti della
democrazia, dagli elementi tendenzialmente egualitari (in termini di cultura,
informazione, consapevolezza, libertà dal bisogno) che un corpo elettorale
dovrebbe avere per esprimersi senza «fini particolaristici».
Ingenua appare, inoltre, la convinzione gramsciana per
la quale la rivoluzione – che egli legge idealisticamente in primo luogo come fatto spirituale – avesse potuto
provocare immediatamente un mutamento di costumi e di indole, persino tra i
«malfattori», pronti a divenire una nuova esemplificazioni della «morale
assoluta» kantiana, poiché – questa è la convinzione del pensatore sardo – «la
libertà fa gli uomini liberi»[8].
Inizierà dopo qualche mese, da parte del giovane
socialista, l’analisi delle distinzione interne al grande evento rivoluzionario
che aveva archiviato il potere zarista, ma non la guerra.
L’attenzione gramsciana venne spostandosi, sia pure
non senza qualche comprensibile oscillazione, vista la scarsità delle sue
informazioni, verso la componente bolscevica (termine che allora veniva
tradotto in Italia con «massimalista», per usare una categoria nota del
panorama politico italiano del tempo), componente bolscevica individuata come
la forza che non accettava che la rivoluzione si fermasse al suo stadio
democratico-borghese, ma pretendeva che essa andasse avanti fino alla conquista
di una società socialista.
La scelta di campo fatta da Gramsci aveva precise
connotazioni teorico-politiche. Rispondeva al suo modo di intendere in quegli
anni sia il marxismo che il socialismo:
«Lenin […] e i suoi compagni bolsceviki – egli
scriveva – sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il
socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non
evoluzionisti»[9].
Dove è palese la polemica contro l’evoluzionismo dei
socialisti positivisti (Kautsky, ad esempio, in Italia Treves e Turati), in
nome di quel soggettivismo rivoluzionario che contraddistingueva il Gramsci di
questo periodo: in Russia – egli aggiungeva – «la rivoluzione continua», perché
gli uomini, tutti gli uomini siano «gli artefici del loro destino»[10].
4. Intanto dilagava in Italia e in Europa l’entusiasmo per ciò che era
avvenuto in Russia.
La disfatta di Caporetto era dietro l’angolo, causata
certo dall’insipienza del Comando militare italiano, ma anche da una sempre più
larga critica di massa alla guerra e a un modo disumano – quello di Cadorna e
degli altri ufficiali, da una parte e dall’altra delle trincee – di usare i
soldati come carne da macello, con una disinvoltura che derivava anche da un
radicato egoismo di classe.
Non era stata questa stessa molla una delle principali
cause della rivoluzione in Russia, se non la principale? Non sorprende dunque
che “fare come in Russia” iniziasse a essere la parola d’ordine che circolava
tra le classi popolari e subalterne di grande parte d’Europa.
Né sorprende che la delegazione dei Soviet russi che
visitò l’Italia, e anche Torino[11],
in quei giorni venisse accolta con entusiasmo, fraintendendo anche le reali
posizioni dei suoi componenti: di fronte a esponenti piuttosto moderati, i
proletari italiani inneggiavano invece con molta maggiore radicalità alla pace,
al socialismo e a Lenin.
E Gramsci non era da meno: la scelta è tra Kerenskij e
Lenin, egli scriveva ad agosto[12],
è tra il nuovo capo del “governo provvisorio”, formatosi il 6 agosto, e il
dirigente rivoluzionario ora ricercato dalla polizia del nuovo governo e
costretto a rifugiarsi in Finlandia.
Dove scrisse in poche settimane Stato e rivoluzione, fino al momento in cui dovette interromperne
la stesura per rientrare in patria a dirigere la rivoluzione, invece che
limitarsi a teorizzarla.
Il 25 ottobre, secondo il calendario russo (il 7
novembre secondo quello occidentale) vi fu la presa del Palazzo d’Inverno,
l’assunzione (quasi senza spargimento di sangue) del potere da parte dei Soviet
egemonizzati dai bolscevichi e dai loro alleati.
È la “seconda rivoluzione”, quella bolscevica, che
Gramsci aveva annunciato e atteso da tempo. Celeberrimo è il suo commento,
scritto a fine novembre: si trattava, per il socialista sardo, di una
«rivoluzione contro Il Capitale», il
libro di Marx, contro chi aveva dato di quel libro e del marxismo una lettura
economicistica e deterministica, “stadiale”, per la quale non sarebbe stata
possibile alcuna rivoluzione socialista nella Russia arretrata prima di un
adeguato sviluppo dello “stadio capitalistico”, dell’industria e dunque della
classe operaia russe.
Il marxismo dei bolscevichi è “costruito” da Gramsci a
immagine e somiglianza delle sue idee[13].
È ancora una volta la volontà che trionfa, nella
visione di Gramsci, in un alto grido che potrebbe essere lanciato ancora oggi
contro il neoliberismo e il dominio assoluto del mito del mercato e delle sue
presunte “leggi oggettive”:
sono gli essere umani associati, per Gramsci, che
devono comprendere, e con la rivoluzione effettivamente comprendono, o avranno
la possibilità di comprendere, «i fatti economici e li giudicano, e li adeguano
alla loro volontà, finché questa
diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che
vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che
può essere incanalata dove alla
volontà piace, come alla volontà piace»[14].
Il Gramsci maturo saprà riformulare questa visione del
processo rivoluzionario, arrivando a definirlo come un rapporto di equilibrio e di influenza reciproca tra “rapporti di
forze” e iniziativa rivoluzionaria. Iniziano a essere presenti in Gramsci, da
qui in avanti, considerazioni e argomentazioni più coerenti con la tradizione
marxista.
Partito da una formazione idealistica, il giovane
sardo iniziava una maturazione teorica, in buona misura sulla spinta della
Rivoluzione russa, che lo portava a leggere o rileggere i classici del marxismo e anche a leggere e a tradurre
(dal francese) i primi scritti di Lenin.
La visione del Gramsci maturo non perderà del tutto il
dato dell’importanza della volontà e della soggettività, ma la realtà
storico-sociale sarà nei Quaderni un campo di possibilità, che le condizioni oggettive offrono al soggetto,
all’interno del quale si determinerà un certo esito piuttosto che un altro a
seconda dell’azione e delle capacità del soggetto stesso.
L’ipersoggettivismo giovanile sarà superato proprio a
partire dalla situazione nuova che l’Ottobre aveva creato e che ricollocava
anche la visione gramsciana su un
terreno nuovo e più concreto.
A partire dalla adesione di Gramsci al movimento
politico internazionale che nasceva con la “seconda rivoluzione” russa, il suo
marxismo iniziò a liberarsi dalle incrostazioni
idealistiche e spiritualistiche che lo condizionavano in modo determinante.
Al di là dell’attacco a effetto, da grande giornalista
(la «rivoluzione contro Il Capitale»
di Marx!), in realtà lo sguardo acuto di Gramsci coglieva alcune motivazioni
profonde dell’Ottobre russo: era stata la guerra – come del resto anche Lenin
aveva previsto – a rendere possibile un evento inaudito e per i più
inaspettato.
Marx aveva «preveduto il prevedibile», non aveva
potuto prevedere la Prima guerra mondiale, il suo carattere senza precedenti,
che «avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare» in tempi molto
più rapidi della norma («perché, normalmente,
i canoni di critica storica del marxismo colgono la realtà»[15]).
In quanto «in Russia la guerra ha servito a spoltrire
le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono
trovate all’unisono molto rapidamente. La carestia era immanente, la fame, la
morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare d’un colpo decine di milioni
di uomini. Le volontà si sono messe all’unisono»[16].
La Russia aveva potuto usufruire del cammino già
tracciato dalle prime rivoluzioni borghesi della storia, e – come anche Marx
aveva ipotizzato – avrebbe potuto usufruire dello sviluppo capitalistico altrove
già realizzato per recuperare l’arretratezza da cui partiva.
5.
Dopo la prima guerra mondiale gli equilibri sociali e politici in Italia e in
Europa erano profondamente mutati.
Il nuovo “protagonismo delle masse”, i sacrifici
patiti in guerra e le promesse che ora i governi non potevano mantenere,
l’esempio della Rivoluzione d’Ottobre, tutti questi elementi fecero ritenere a
molti che si fosse in una fase pre-rivoluzionaria, o che poco ci mancasse.
In diversi Paesi sorsero, sulla scia dei Soviet russi, nuovi organismi di
auto-organizzazione della classe operaia, i Consigli di fabbrica.
Anche a Torino, dove il giornale fondato da Gramsci
insieme ai suoi più stretti amici socialisti, «L’Orine Nuovo», divenne
ispirazione e guida di quel movimento operaio che lottava per una democrazia di
tipo nuovo, classista (cioè che privilegiava i lavoratori) e basata sul
controllo degli eletti da parte degli elettori.
Una delle cause maggiori della sua sconfitta, avvenuta
alla fine del “biennio rosso” 1919-1920, fu per Gramsci la mancanza di un
partito unito e teso alla costruzione di tale nuova democrazia proletaria.
Anche per questo Gramsci si convinse della necessità di fondare un nuovo
partito, il Partito comunista d’Italia, aderente alla Terza Internazionale
comunista (che era nata Mosca nel 1919), nonostante che il maggiore
propugnatore e dirigente del PCd’I, Amadeo Bordiga, fosse abbastanza lontano da
Gramsci sia nella concezione del marxismo, che in quella del partito, che nella
concezione del processo rivoluzionario nel suo complesso[17].
Dal suo partito Gramsci fu inviato nel giugno 1922 a
Mosca, come rappresentate italiano presso l’Internazionale comunista. Nel “paese
dei Soviet” risiedette fino alla fine del 1923, per poi spostarsi a Vienna e
fare ritorno in Italia nel maggio 1924.
Ebbe inizio a Mosca, dunque, la convinzione della
necessità di intraprendere una lotta per la formazione di un nuovo gruppo
dirigente diverso da quello di Bordiga del PCd’I, lotta che si concluse
nell’agosto 1924 con la nomina di Gramsci a segretario del Partito, grazie al
decisivo intervento dell’Internazionale.
Iniziò un vero e proprio periodo di rifondazione
gramsciana del Partito, che culminò nel suo III Congresso, svoltosi a Lione nel
gennaio 1926[18].
6.
Fu in qualità di Segretario dei comunisti italiani che Gramsci scrisse il 14
ottobre 1926 una allarmata lettera al Comitato centrale del Partito comunista
russo.
Ai vertici del Partito comunista russo (bolscevico),
infatti, la lotta fra la maggioranza guidata da Stalin e Bucharin e la
minoranza guidata da Trockij stava assumendo modalità sempre più radicali.
La lettera di Gramsci, scritta nella sede diplomatica
sovietica a Roma, venne inviata a Palmiro Togliatti, che rappresentava allora
il PCd’I presso l’Internazionale a Mosca, perché la facesse tradurre e la
inoltrasse al Comitato centrale del partito sovietico.
La lettera di Gramsci e lo scambio epistolare che
seguì tra Gramsci e Togliatti determinarono uno scontro aspro fra i due massimi
dirigenti del PCd’I, amici e collaboratori fin dagli anni universitari a
Torino.
Nella sua prima lettera[19]
Gramsci dichiarava di aderire alla linea della maggioranza bolscevica, a cui il
partito italiano era più vicino perché essa continuava a sostenere la politica
leninista di alleanza con i contadini; ma metteva in guardia contro le modalità
con cui veniva condotta la lotta contro la minoranza, modalità che – unitamente
alla rottura dell’unità della “vecchia guardia” leninista – minavano secondo
Gramsci la credibilità di tutto il gruppo dirigente comunista mondiale.
Gramsci esprimeva in sostanza preoccupazione per il
fatto che le masse non avrebbero capito i termini di un conflitto tanto
violento e preoccupazione per il futuro stesso del movimento comunista
internazionale.
Egli continuava a considerare Trockij,
Zinov’ev e Kamenev, di cui pure non condivideva la linea politica, «fra i nostri maestri»[20],
rifiutandosi di demonizzarli come faceva Stalin.
Come nel coevo saggio sulla «quistione meridionale»[21],
nella lettera al gruppo dirigente bolscevico grande importanza ha il concetto
di egemonia: Gramsci ne parlava a proposito del rapporto operai-contadini,
raffrontando situazione russa e situazione italiana; e collegava la teoria
dell’egemonia alla maturità della classe operaia, disposta a delle concessioni
importanti nell’immediato, in termini economici, per garantirsi degli alleati,
prima e anche dopo la presa del potere.
Era a partire dalla politica della Nep – iniziata nel
1921 per volontà di Lenin e ancora difesa nel 1926 soprattutto da Bucharin –
che Gramsci aveva iniziato a elaborare in modo nuovo la politica delle alleanze
e il concetto di egemonia[22],
ovvero l’insieme di un nuovo modo di concepire tanto la presa del potere che il
suo mantenimento, poggiante più sul «consenso» che sul «dominio»: era già
iniziata la riflessione che sarebbe proseguita nei Quaderni.
Nel giro di un paio di anni Stalin, però, dopo aver
sconfitto Trockij, ruppe l’alleanza con Bucharin e applicò nei fatti la linea
trockijsta della industrializzazione a tappe forzate, che postulava il brutale
asservimento dei contadini alla politica decisa dal partito, rompendo ogni
possibile discorso di “alleanza” e di “egemonia”.
Togliatti replicò privatamente a Gramsci[23],
affermando nella sua lettera che ormai la lotta ai vertici del partito
sovietico era senza ritorno e che bisognava prenderne atto, schierandosi senza
esitazioni con la maggioranza.
La seconda lettera di Gramsci[24],
in risposta alla missiva togliattiana, ribadiva esplicitamente, con le altre
tesi gramsciane, la necessità di assumere non il punto di vista dei ristretti
gruppi dirigenti dei partiti comunisti, ma il
punto di vista delle masse (le «grandi masse lavoratrici»), preoccupandosi
in primo luogo di cosa esse avrebbero capito e pensato dello scontro in atto e
come avrebbero reagito di fronte alle reciproche scomuniche tra “maggioranza” e
“opposizione”, di fronte a una lotta che già si preannunciava senza esclusione
di colpi e che avrebbe rappresentato di fatto l’inizio di quello che poi si
sarebbe chiamato “stalinismo”: un esito contro cui Gramsci levava con
ostinazione la sua voce.
Pur impegnando tutto se stesso nella costruzione del
Partito, Gramsci infatti continua a considerare centrali le masse e i loro
orientamenti – come negli anni del “biennio rosso”, dell’«Ordine Nuovo» e dei
Consigli di fabbrica: un’idea di centralità della partecipazione e della
decisione dei lavoratori, prima che del loro Partito, che in lui non era venuta
mai meno.
La divaricazione tra i punti di vista di Gramsci e
Togliatti era insieme politica e di prospettiva, riflettendo la divaricazione
che si apriva in un movimento rivoluzionario che istituzionalizzandosi (in
condizioni interne e internazionali molto difficili) veniva perdendo in parte i
propri connotati liberatori.
Togliatti aveva ragione nel pensare che un piccolo
partito come il PCd’I, semiclandestino in un paese in mano al fascismo, non
poteva sopravvivere senza l’appoggio materiale e simbolico dell’Unione
Sovietica.
Gramsci aveva ragione sul piano della prospettiva
storica, perché vedeva i rischi dell’involuzione dell’Unione Sovietica e del
movimento comunista, per il venir meno della prospettiva della rivoluzione mondiale, per il conseguente e decisivo
processo di identificazione del movimento comunista con lo Stato sovietico.
7. Gramsci, benché fosse parlamentare, venne arrestato dal fascismo
all'inizio del novembre 1926.
In carcere Gramsci non abbandonò mai il suo sentirsi
parte del movimento comunista. Cercò di interrogarsi sui motivi della sconfitta
subita dal movimento comunista negli anni Venti.
Prese così avvio una riflessione originale sul potere
nelle società complesse. Egli
elaborò una nuova concezione dello Stato, che definiva «Stato integrale»,
insieme di struttura e sovrastruttura, coercizione e consenso, società politica
e società civile. (Su questo torneremo nei prossimi giorni).
Vi era una radicale differenza dei paesi
“occidentali”, capitalisticamente avanzati, con la Russia del 1917. Scrive a
questo proposito Gramsci:
«In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era
primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un
giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta
struttura della società civile»[25].
E Gramsci ritenne necessario elaborare anche un
modello di rivoluzione molto diverso
dalla Rivoluzione d’Ottobre (anche su questo torneremo nei prossimi giorni).
La volontà di cambiamento non perdeva il suo
ancoraggio di classe, il suo cuore nel mondo economico e dei rapporti sociali,
ma coglieva tutta la complessità dell’azione politica moderna, in una società
moolto diversa da quella russa del 1917.
Come vedremo, uso dire che Gramsci rivoluziona il concetto di rivoluzione.
In tutto ciò, però, l’ammirazione e il rispetto per la
Rivoluzione d’Ottobre, e per l’Unione Sovietica, non vennero mai meno.
Gramsci morì nel 1937 nell’Italia fascista, e solo in
parte ebbe comprensione di come si fosse evoluto il “paese dei Soviet”, anche
se si può ritenere che molti degli elementi di fondo gli fossero noti.
Nonostante tutto, egli sapeva che dalla Rivoluzione
d’Ottobre era iniziata una nuova storia, una storia di resistenza e di
liberazione, per milioni di donne e di uomini.
Era iniziata la lotta contro l’oppressione, una
“rivoluzione contro il capitale”, per comprendere e adeguare i «fatti economici»
alla volontà degli uomini, per non farsi dominare da essi – come aveva scritto
nel dicembre 1917 –, e questo il
rivoluzionario Gramsci non poteva dimenticarlo.
[1] Questo e gli altri principali scritti gramsciani di questo periodo
sono raccolti in Antonio Gramsci, Masse e
partito. Antologia 1910-1926, a cura di Guido Liguori, Editori Riuniti,
Roma, 2016.
[2] Antonio Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, «Il Grido del Popolo», 29 aprile
1917, ivi, p. ..
[3]
Ivi, p. 35.
[4]
Cfr. su questo R. Medici, Giacobinismo,
in F. Frosini, G. Liguori (a cura di), Le
parole di Gramsci, Roma, Carocci, 2004, pp. 113 ss. Nei Quaderni del carcere il giacobinismo
sarà una vera e propria categoria teorico-politica, non solo storiografica, e
avrà una coloritura decisamente positiva, in relazione alla capacità, propria
dei giacobini come dei bolscevichi, ma anticipata teoricamente anche da
Machiavelli (in cui perciò si vede un «giacobinismo precoce»), di stabilire una
alleanza tra «città» e «campagna».
[5]
Cfr. G. Sorel, Considerazioni sulla
violenza [1908], Bari, Laterza, 1974, pp. 149-58.
[6]
A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 35.
[7] Ibidem.
[8]
Antonio Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 36.
[9] Ivi, p. …
[10] Ivi, p…
[11] Cfr. Antonio Gramsci, Il compito
della rivoluzione russa, «Avanti!», 15 agosto 1917, infra, pp. …
[12] Cfr. Antonio Gramsci, Kerensky e
Lenin, «Il Grido del Popolo», 25 agosto 1917, infra, p. …
[13] Antonio Gramsci, La rivoluzione
contro «Il Capitale», «Il Grido del Popolo», 1° dicembre 1917, infra, p. …
[14] Ivi, p. …
[15] Ivi, p. …
[16] Ivi, p. …
[17] Per un approfondimento di questi temi, mi permetto di rinviare di
nuovo al mio Teoria e politica nel
marxismo di Antonio Gramsci, cit.
[18] Cfr. ivi, pp. 249 ss.
[19] Lettera di Gramsci al Comitato centrale del
Partito comunista russo, 14 novembre 1926, firmata «L’Ufficio politico del
PCI», infra, pp. ….
[20] Ivi, p. …
[21] Cfr. Antonio Gramsci, Alcuni
temi della quistione meridionale, ora in Id., Masse e Partito, cit., pp. 366-88.
[22] Il termine, in uso ai vertici della Terza Internazionale, indicava
proprio la capacità di direzione dei contadini da parte della classe operaia e
del suo partito. Esso divenne soprattutto a partire dai Quaderni una ben più complessa categoria teorico-politica,
profondamente rielaborata da Gramsci.
[23] Lettera di Togliatti a Gramsci, 18 ottobre 1926, infra, pp. ….
[24] Lettera di Gramsci a Togliatti, 26 ottobre 1926, infra, pp.
…
[25] Antonio Gramsci, Quaderni del
carcere, edizione a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 866.
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