miércoles, 3 de mayo de 2017

XII SEMINARIO INTERNACIONAL GRAMSCI

PRIMERA CONFERENCIA, MIÉRCOLES 3 DE MAYO, 2 PM,  FACULTAD DE DERECHO Y CIENCIA POLÍTICA, UNAL, BOGOTÁ. INVITA GRUPO PRESIDENCIALISMO Y PARTICIPACIÓN, Y CURSOS ASOCIADOS.

 Gramsci e la rivoluzione russa
Guido Liguori. Profesor investigador, U. de Calabria. Presidente de la International Gramsci Society Italia. Editor con Pasquale Voza del Dizionario Gramsciano 1926-1937, la "biblia laica", de los Cuadernos de la Cárcel.

1. È forse opportuno iniziare con qualche breve notizia sulla vita e la biografia di Antonio Gramsci, per capire bene la statura dell’uomo e dell’intellettuale di cui ci occupiamo.
Nato ad Ales, in Sardegna, il 22 gennaio 1891, Antonio Gramsci aveva trascorso una infanzia difficile, sia perché colpito in tenera età dal morbo di Pott (una forma di tubercolosi ossea), sia per l’arresto e la condanna al carcere del padre, accusato di irregolarità amministrative come impiegato dell’ufficio delle tasse, nel 1894-1895, evento che gettò la famiglia (numerosa) in una situazione di gravissime difficoltà economiche.
Costretto a sospendere lo studio dopo le scuole elementari e a lavorare per due anni presso l’ufficio del catasto del paese della madre, Ghilarza, dove la famiglia si era ritirata per cercare di sopravvivere, il piccolo Antonio riuscì a riprendere la scuola, mostrando grandi doti di intelligenza e volontà.
Dopo il liceo, frequentato dal 1908 a Cagliari, grazie anche al fratello Gennaro, che lavorava presso la locale Camera del lavoro, nel 1911 Nino (come era chiamato da ragazzo) si era trasferito a Torino per frequentarvi la Facoltà di Lettere e Filosofia, indirizzo di filologia moderna, grazie al conseguimento di una borsa di studio che tuttavia non fu sufficiente a evitargli stenti e sofferenze che caratterizzavano la vita di uno studente povero, meridionale e proveniente dalla provincia, in una grande città settentrionale e industriale come Torino.
In Sardegna Gramsci aveva iniziato a leggere libri e riviste di quella cultura d’opposizione (al positivismo, e sul piano politico a Giolitti e al giolittismo) che fu il terreno proprio della sua formazione:
- il meridionalismo di Salvemini
- le “riviste fiorentine” come «Il Leonardo» e «La Voce» di Papini e Prezzolini, che agitavano motivi filosofici – dal neoidealismo al pragmatismo al bergsonismo – convergenti nella  rivalutazione del “soggetto” contro l’“oggettivismo” di matrice positivistica, che aveva influenzato le principali correnti del socialismo del tempo.
All’Università di Torino Gramsci aveva subito poi l’influenza di Matteo Bartoli, docente di glottologia, che voleva avviarlo agli studi di linguistica e alla carriera universitaria, e dal quale deriverà sia una impostazione di tipo storicistico, sia la convinzione della importanza del «prestigio» culturale.
Accanto agli studi di linguistica, era stato rilevante l’approfondimento del pragmatismo statunitense di William James; la lezione di Georges Sorel, che ispirandosi anche a Henri Bergson aveva criticato il movimento socialista ufficiale da posizioni di attivismo rivoluzionario; l’incontro con il neoidealismo di Benedetto Croce, che stava determinando in Italia una nuova egemonia culturale antipositivistica; la filosofia della praxis su cui avevano richiamato l’attenzione il primo marxista italiano, Antonio Labriola, e il filosofo neohegeliano Giovanni Gentile, studioso di Marx, che aveva sottolineato l’importanza delle marxiane Tesi su Feuerbach, che saranno uno dei testi fondamentali per il Gramsci maturo, poiché in essi Marx aveva insistito su una visione dialettica della realtà, non sbilanciata né dal lato del soggetto e dell’idealismo né da quello del mondo oggettivo e del materialismo.
Da tutte queste componenti della sua prima formazione il giovane Gramsci aveva tratto soprattutto un aspetto fondamentale: il ruolo della volontà, dell’azione soggettiva, della prassi per la trasformazione della realtà.
Il socialismo allora prevalente, economicistica e determinista, evoluzionista e riformista, proprio del socialismo italiano e internazionale, era incline a ridimensionare la funzione del soggetto (collettivo) per esaltare le leggi oggettive (o presunte tali) della società e della storia, con annesso il mito dell’inevitabile progresso e del trionfo inesorabile del socialismo.
Esso sembrava escludere ogni ribellismo, ogni volontarismo rivoluzionario, caratteri maturati in Gramsci nel clima delle ingiustizie subite in Sardegna e a contatto con la sua terra, povera e sfruttata al pari di una colonia, come più in generale l’Italia meridionale.
Il marxismo di Gramsci era allora in molti tratti approssimativo, troppo influenzato dall’idealismo, troppo limitato nella conoscenza di Marx (che inizierà davvero proprio dopo e a motivo dell’Ottobre), ma era comunque vitale, innovativo, rivoluzionario, caratterizzato da una torsione volontaristica e soggettivistica.
La Torino del tempo non era solo una capitale culturale, era anche la più grande città industriale d’Italia. A Torino Gramsci divenne definitivamente socialista, incontrando la classe operaia di quella città – una delle classi operaie più numerose e forti dell’epoca, in una città industriale dove andavano già nascendo colossi come la Fiat – e il movimento socialista che da tale classe operaia traeva forza.
Gramsci si iscrisse al Partito socialista italiano tra il 1913 e il 1914, il suo debutto politico avvenne con un articolo intitolato Neutralità attiva e operante,  pubblicato su «Il Grido del Popolo» il 31 ottobre 1914[1]. Lo scritto suscitò molte polemiche, poiché cercava di fornire una lettura “di sinistra” delle posizioni di Mussolini, che stava rapidamente convertendosi a favore dell’intervento nella Prima guerra mondiale.
In realtà Gramsci vi avanzava una posizione non molto lontana da quella che – in modo certo molto più maturo e consapevole – aveva espresso Lenin: i socialisti dovevano trasformare la guerra in una occasione rivoluzionaria.
Isolato a causa della sua presa di posizione e per qualche tempo in disparte, Gramsci rientrò ben presto nella vita attiva del Partito grazie alla guerra, che a esso sottraeva quadri e dirigenti.
Gramsci giornalista militante socialista si impose per la vastità dei campi di intervento e per l’originalità delle sue lenti analitiche.
Tutto ciò che era volontà, attività del soggetto, iniziativa rivoluzionaria, era importante per il giovane Gramsci. Non sorprende che, con questa impostazione culturale e politica, egli vide nella Rivoluzione russa una conferma di enorme prestigio per le sue convinzioni.

2. Quando arrivarono in Italia gli echi della prima rivoluzione russa del 1917, quella di febbraio (23-27 febbraio), secondo il calendario russo (perché per il calendario occidentale la rivoluzione avvenne tra l’8 e il 12 marzo), Antonio Gramsci aveva 26 anni, viveva a Torino e lavorava dal dicembre 1915 come giornalista socialista, per l’edizione torinese dell’«Avanti!» (il quotidiano organi del Partito Socialista) e per il settimanale dei socialisti torinesi «Il Grido del Popolo».
La terribile guerra che sconvolgeva soprattutto l'Europa dall’estate del 1914 e l’Italia dal maggio 1915 aveva già provocato centinaia di migliaia di morti e costretto a durissimi sacrifici le popolazioni civili.
Nel corso del 1917 il rifiuto della guerra avrebbe scosso diversi paesi, provocando diserzioni, sommosse, rivolte.
Dal 22 al 27 agosto di quell’anno proprio a Torino sarebbe scoppiata una grande “rivolta del pane”, un moto popolare spontaneo, il più grande che si ebbe in Europa (eccezion fatta per quel che accadde Russia).
In seguito questa vera e propria rivolta una nuova ondata repressiva si sarebbe abbattuta sui socialisti torinesi. La guerra prima, con numerosi dirigenti e militanti chiamati sotto le armi, e gli arresti seguiti alla “rivolta del pane” poi, favorirono l’emergere di Gramsci come dirigente politico (egli divenne il maggiore dirigente della Sezione, o federazione, Socialista di Torino) e come direttore del «Grido del Popolo», il settimanale del Partito.
Già nei mesi e negli anni precedenti, tuttavia, egli si era distinto per lo sguardo acuto e spesso anticonvenzionale con cui seguiva e commentava quotidianamente gli avvenimenti sociali, politici e culturali torinesi, italiani e anche internazionali.
Nella sua attività di giornalista militante Gramsci usava un armamentario teorico e culturale anomalo per il socialismo del tempo. Sarà proprio tale bagaglio che gli permetterà di sintonizzarsi immediatamente coi fatti di Russia del 1917, di comprenderne – sia pure non senza ingenuità e successive correzioni – la grande portata.

3. Fin dai primi commenti alla “rivoluzione di febbraio” Gramsci lesse gli avvenimenti di Russia come la riscossa degli “internazionalisti”, dei socialisti che non avevano tradito lo spirito dell’Internazionale, e vide nei fatti di Pietrogrado una «rivoluzione proletaria»[2] («operai e soldati», specifica, dunque operai e contadini).
Non aveva del tutto torto, poiché all’origine della “prima rivoluzione” del 1917 vi erano stati imponenti scioperi e manifestazioni a partire dalle fabbriche dell’allora capitale della Russia zarista, come era stato decisivo il passaggio dalla parte degli insorti di numerosi reparti di soldati (cioè di contadini) che si unirono ai rivoltosi.
Quali per Gramsci i caratteri di fondo dell’evento?
La «rivoluzione russa» era per lui un «atto» proletario soprattutto perché aveva «ignorato il giacobinismo», ovvero non aveva «dovuto conquistare la maggioranza con la violenza»[3].
Fino al 1921 – quando muterà giudizio sulla base dell’opera del grande storico francese Albert Mathiez, che sottolineerà positivamente le similitudini tra giacobini e bolscevichi[4] – Gramsci fu decisamente antigiacobino, influenzato nei suoi anni giovanili soprattutto da Sorel, che aveva sostenuto esservi elementi di continuità autoritaria tra giacobinismo e ancien régime[5].
Il giacobinismo, la rivoluzione giacobina, erano per Gramsci fenomeni borghesi, di una minoranza che «serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe»[6].
Invece i «rivoluzionari russi» non volevano sostituire dittatura a dittatura e – egli sosteneva – avrebbero avuto, attraverso il suffragio universale, l’appoggio della grandissima parte del «proletariato russo», se solo esso avesse potuto esprimersi liberamente, senza essere soggetto agli apparati repressivi dello Stato zarista.
Era, come si diceva, una visione piuttosto ingenua del processo rivoluzionario, sia per quel che concerneva i fatti di Russia – in cui le forze della rivoluzione erano in realtà molto più composite e divise al loro interno di quanto il discorso gramsciano lasciasse intendere –, sia della possibilità che il suffragio universale bastasse a garantire l’affermarsi della reale volontà del proletariato, che il socialista rivoluzionario Gramsci sembrava intendere nei termini di un «passaggio a una nuova forma di società»[7], una società socialista.
Gramsci prescindeva qui – al contrario di quanto farà con grande acutezza negli scritti maturi del carcere, ma anche, in parte, dal periodo consiliarista dell’ «Ordine Nuovo» – dai prerequisiti della democrazia, dagli elementi tendenzialmente egualitari (in termini di cultura, informazione, consapevolezza, libertà dal bisogno) che un corpo elettorale dovrebbe avere per esprimersi senza «fini particolaristici».
Ingenua appare, inoltre, la convinzione gramsciana per la quale la rivoluzione – che egli legge idealisticamente in primo luogo come fatto spirituale – avesse potuto provocare immediatamente un mutamento di costumi e di indole, persino tra i «malfattori», pronti a divenire una nuova esemplificazioni della «morale assoluta» kantiana, poiché – questa è la convinzione del pensatore sardo – «la libertà fa gli uomini liberi»[8].
Inizierà dopo qualche mese, da parte del giovane socialista, l’analisi delle distinzione interne al grande evento rivoluzionario che aveva archiviato il potere zarista, ma non la guerra. 
L’attenzione gramsciana venne spostandosi, sia pure non senza qualche comprensibile oscillazione, vista la scarsità delle sue informazioni, verso la componente bolscevica (termine che allora veniva tradotto in Italia con «massimalista», per usare una categoria nota del panorama politico italiano del tempo), componente bolscevica individuata come la forza che non accettava che la rivoluzione si fermasse al suo stadio democratico-borghese, ma pretendeva che essa andasse avanti fino alla conquista di una società socialista.
La scelta di campo fatta da Gramsci aveva precise connotazioni teorico-politiche. Rispondeva al suo modo di intendere in quegli anni sia il marxismo che il socialismo:
«Lenin […] e i suoi compagni bolsceviki – egli scriveva – sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti»[9].
Dove è palese la polemica contro l’evoluzionismo dei socialisti positivisti (Kautsky, ad esempio, in Italia Treves e Turati), in nome di quel soggettivismo rivoluzionario che contraddistingueva il Gramsci di questo periodo: in Russia – egli aggiungeva – «la rivoluzione continua», perché gli uomini, tutti gli uomini siano «gli artefici del loro destino»[10].

4. Intanto dilagava in Italia e in Europa l’entusiasmo per ciò che era avvenuto in Russia.
La disfatta di Caporetto era dietro l’angolo, causata certo dall’insipienza del Comando militare italiano, ma anche da una sempre più larga critica di massa alla guerra e a un modo disumano – quello di Cadorna e degli altri ufficiali, da una parte e dall’altra delle trincee – di usare i soldati come carne da macello, con una disinvoltura che derivava anche da un radicato egoismo di classe.
Non era stata questa stessa molla una delle principali cause della rivoluzione in Russia, se non la principale? Non sorprende dunque che “fare come in Russia” iniziasse a essere la parola d’ordine che circolava tra le classi popolari e subalterne di grande parte d’Europa.
Né sorprende che la delegazione dei Soviet russi che visitò l’Italia, e anche Torino[11], in quei giorni venisse accolta con entusiasmo, fraintendendo anche le reali posizioni dei suoi componenti: di fronte a esponenti piuttosto moderati, i proletari italiani inneggiavano invece con molta maggiore radicalità alla pace, al socialismo e a Lenin.
E Gramsci non era da meno: la scelta è tra Kerenskij e Lenin, egli scriveva ad agosto[12], è tra il nuovo capo del “governo provvisorio”, formatosi il 6 agosto, e il dirigente rivoluzionario ora ricercato dalla polizia del nuovo governo e costretto a rifugiarsi in Finlandia.
Dove scrisse in poche settimane Stato e rivoluzione, fino al momento in cui dovette interromperne la stesura per rientrare in patria a dirigere la rivoluzione, invece che limitarsi a teorizzarla.
Il 25 ottobre, secondo il calendario russo (il 7 novembre secondo quello occidentale) vi fu la presa del Palazzo d’Inverno, l’assunzione (quasi senza spargimento di sangue) del potere da parte dei Soviet egemonizzati dai bolscevichi e dai loro alleati.
È la “seconda rivoluzione”, quella bolscevica, che Gramsci aveva annunciato e atteso da tempo. Celeberrimo è il suo commento, scritto a fine novembre: si trattava, per il socialista sardo, di una «rivoluzione contro Il Capitale», il libro di Marx, contro chi aveva dato di quel libro e del marxismo una lettura economicistica e deterministica, “stadiale”, per la quale non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista nella Russia arretrata prima di un adeguato sviluppo dello “stadio capitalistico”, dell’industria e dunque della classe operaia russe.  
Il marxismo dei bolscevichi è “costruito” da Gramsci a immagine e somiglianza delle sue idee[13].
È ancora una volta la volontà che trionfa, nella visione di Gramsci, in un alto grido che potrebbe essere lanciato ancora oggi contro il neoliberismo e il dominio assoluto del mito del mercato e delle sue presunte “leggi oggettive”:
sono gli essere umani associati, per Gramsci, che devono comprendere, e con la rivoluzione effettivamente comprendono, o avranno la possibilità di comprendere, «i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace»[14].
Il Gramsci maturo saprà riformulare questa visione del processo rivoluzionario, arrivando a definirlo come un rapporto di equilibrio e di influenza reciproca tra “rapporti di forze” e iniziativa rivoluzionaria. Iniziano a essere presenti in Gramsci, da qui in avanti, considerazioni e argomentazioni più coerenti con la tradizione marxista.
Partito da una formazione idealistica, il giovane sardo iniziava una maturazione teorica, in buona misura sulla spinta della Rivoluzione russa, che lo portava a leggere o rileggere i classici del marxismo e anche a leggere e a tradurre (dal francese) i primi scritti di Lenin.
La visione del Gramsci maturo non perderà del tutto il dato dell’importanza della volontà e della soggettività, ma la realtà storico-sociale sarà nei Quaderni un campo di possibilità, che le condizioni oggettive offrono al soggetto, all’interno del quale si determinerà un certo esito piuttosto che un altro a seconda dell’azione e delle capacità del soggetto stesso.
L’ipersoggettivismo giovanile sarà superato proprio a partire dalla situazione nuova che l’Ottobre aveva creato e che ricollocava anche la visione gramsciana su un terreno nuovo e più concreto.
A partire dalla adesione di Gramsci al movimento politico internazionale che nasceva con la “seconda rivoluzione” russa, il suo marxismo iniziò a liberarsi dalle incrostazioni idealistiche e spiritualistiche che lo condizionavano in modo determinante.
Al di là dell’attacco a effetto, da grande giornalista (la «rivoluzione contro Il Capitale» di Marx!), in realtà lo sguardo acuto di Gramsci coglieva alcune motivazioni profonde dell’Ottobre russo: era stata la guerra – come del resto anche Lenin aveva previsto – a rendere possibile un evento inaudito e per i più inaspettato.
Marx aveva «preveduto il prevedibile», non aveva potuto prevedere la Prima guerra mondiale, il suo carattere senza precedenti, che «avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare» in tempi molto più rapidi della norma («perché, normalmente, i canoni di critica storica del marxismo colgono la realtà»[15]).
In quanto «in Russia la guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all’unisono molto rapidamente. La carestia era immanente, la fame, la morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare d’un colpo decine di milioni di uomini. Le volontà si sono messe all’unisono»[16].
La Russia aveva potuto usufruire del cammino già tracciato dalle prime rivoluzioni borghesi della storia, e – come anche Marx aveva ipotizzato – avrebbe potuto usufruire dello sviluppo capitalistico altrove già realizzato per recuperare l’arretratezza da cui partiva.

5. Dopo la prima guerra mondiale gli equilibri sociali e politici in Italia e in Europa erano profondamente mutati.
Il nuovo “protagonismo delle masse”, i sacrifici patiti in guerra e le promesse che ora i governi non potevano mantenere, l’esempio della Rivoluzione d’Ottobre, tutti questi elementi fecero ritenere a molti che si fosse in una fase pre-rivoluzionaria, o che poco ci mancasse.
In diversi Paesi sorsero, sulla scia dei Soviet russi, nuovi organismi di auto-organizzazione della classe operaia, i Consigli di fabbrica.
Anche a Torino, dove il giornale fondato da Gramsci insieme ai suoi più stretti amici socialisti, «L’Orine Nuovo», divenne ispirazione e guida di quel movimento operaio che lottava per una democrazia di tipo nuovo, classista (cioè che privilegiava i lavoratori) e basata sul controllo degli eletti da parte degli elettori.
Una delle cause maggiori della sua sconfitta, avvenuta alla fine del “biennio rosso” 1919-1920, fu per Gramsci la mancanza di un partito unito e teso alla costruzione di tale nuova democrazia proletaria. Anche per questo Gramsci si convinse della necessità di fondare un nuovo partito, il Partito comunista d’Italia, aderente alla Terza Internazionale comunista (che era nata Mosca nel 1919), nonostante che il maggiore propugnatore e dirigente del PCd’I, Amadeo Bordiga, fosse abbastanza lontano da Gramsci sia nella concezione del marxismo, che in quella del partito, che nella concezione del processo rivoluzionario nel suo complesso[17].
Dal suo partito Gramsci fu inviato nel giugno 1922 a Mosca, come rappresentate italiano presso l’Internazionale comunista. Nel “paese dei Soviet” risiedette fino alla fine del 1923, per poi spostarsi a Vienna e fare ritorno in Italia nel maggio 1924.
Ebbe inizio a Mosca, dunque, la convinzione della necessità di intraprendere una lotta per la formazione di un nuovo gruppo dirigente diverso da quello di Bordiga del PCd’I, lotta che si concluse nell’agosto 1924 con la nomina di Gramsci a segretario del Partito, grazie al decisivo intervento dell’Internazionale.
Iniziò un vero e proprio periodo di rifondazione gramsciana del Partito, che culminò nel suo III Congresso, svoltosi a Lione nel gennaio 1926[18].

6. Fu in qualità di Segretario dei comunisti italiani che Gramsci scrisse il 14 ottobre 1926 una allarmata lettera al Comitato centrale del Partito comunista russo.
Ai vertici del Partito comunista russo (bolscevico), infatti, la lotta fra la maggioranza guidata da Stalin e Bucharin e la minoranza guidata da Trockij stava assumendo modalità sempre più radicali.
La lettera di Gramsci, scritta nella sede diplomatica sovietica a Roma, venne inviata a Palmiro Togliatti, che rappresentava allora il PCd’I presso l’Internazionale a Mosca, perché la facesse tradurre e la inoltrasse al Comitato centrale del partito sovietico.
La lettera di Gramsci e lo scambio epistolare che seguì tra Gramsci e Togliatti determinarono uno scontro aspro fra i due massimi dirigenti del PCd’I, amici e collaboratori fin dagli anni universitari a Torino.
Nella sua prima lettera[19] Gramsci dichiarava di aderire alla linea della maggioranza bolscevica, a cui il partito italiano era più vicino perché essa continuava a sostenere la politica leninista di alleanza con i contadini; ma metteva in guardia contro le modalità con cui veniva condotta la lotta contro la minoranza, modalità che – unitamente alla rottura dell’unità della “vecchia guardia” leninista – minavano secondo Gramsci la credibilità di tutto il gruppo dirigente comunista mondiale.
Gramsci esprimeva in sostanza preoccupazione per il fatto che le masse non avrebbero capito i termini di un conflitto tanto violento e preoccupazione per il futuro stesso del movimento comunista internazionale.
Egli continuava a considerare Trockij, Zinov’ev e Kamenev, di cui pure non condivideva la linea politica, «fra i nostri maestri»[20], rifiutandosi di demonizzarli come faceva Stalin.
Come nel coevo saggio sulla «quistione meridionale»[21], nella lettera al gruppo dirigente bolscevico grande importanza ha il concetto di egemonia: Gramsci ne parlava a proposito del rapporto operai-contadini, raffrontando situazione russa e situazione italiana; e collegava la teoria dell’egemonia alla maturità della classe operaia, disposta a delle concessioni importanti nell’immediato, in termini economici, per garantirsi degli alleati, prima e anche dopo la presa del potere.
Era a partire dalla politica della Nep – iniziata nel 1921 per volontà di Lenin e ancora difesa nel 1926 soprattutto da Bucharin – che Gramsci aveva iniziato a elaborare in modo nuovo la politica delle alleanze e il concetto di egemonia[22], ovvero l’insieme di un nuovo modo di concepire tanto la presa del potere che il suo mantenimento, poggiante più sul «consenso» che sul «dominio»: era già iniziata la riflessione che sarebbe proseguita nei Quaderni.
Nel giro di un paio di anni Stalin, però, dopo aver sconfitto Trockij, ruppe l’alleanza con Bucharin e applicò nei fatti la linea trockijsta della industrializzazione a tappe forzate, che postulava il brutale asservimento dei contadini alla politica decisa dal partito, rompendo ogni possibile discorso di “alleanza” e di “egemonia”.

Togliatti replicò privatamente a Gramsci[23], affermando nella sua lettera che ormai la lotta ai vertici del partito sovietico era senza ritorno e che bisognava prenderne atto, schierandosi senza esitazioni con la maggioranza.

La seconda lettera di Gramsci[24], in risposta alla missiva togliattiana, ribadiva esplicitamente, con le altre tesi gramsciane, la necessità di assumere non il punto di vista dei ristretti gruppi dirigenti dei partiti comunisti, ma il punto di vista delle masse (le «grandi masse lavoratrici»), preoccupandosi in primo luogo di cosa esse avrebbero capito e pensato dello scontro in atto e come avrebbero reagito di fronte alle reciproche scomuniche tra “maggioranza” e “opposizione”, di fronte a una lotta che già si preannunciava senza esclusione di colpi e che avrebbe rappresentato di fatto l’inizio di quello che poi si sarebbe chiamato “stalinismo”: un esito contro cui Gramsci levava con ostinazione la sua voce.
Pur impegnando tutto se stesso nella costruzione del Partito, Gramsci infatti continua a considerare centrali le masse e i loro orientamenti – come negli anni del “biennio rosso”, dell’«Ordine Nuovo» e dei Consigli di fabbrica: un’idea di centralità della partecipazione e della decisione dei lavoratori, prima che del loro Partito, che in lui non era venuta mai meno.
La divaricazione tra i punti di vista di Gramsci e Togliatti era insieme politica e di prospettiva, riflettendo la divaricazione che si apriva in un movimento rivoluzionario che istituzionalizzandosi (in condizioni interne e internazionali molto difficili) veniva perdendo in parte i propri connotati liberatori.
Togliatti aveva ragione nel pensare che un piccolo partito come il PCd’I, semiclandestino in un paese in mano al fascismo, non poteva sopravvivere senza l’appoggio materiale e simbolico dell’Unione Sovietica.
Gramsci aveva ragione sul piano della prospettiva storica, perché vedeva i rischi dell’involuzione dell’Unione Sovietica e del movimento comunista, per il venir meno della prospettiva della rivoluzione mondiale, per il conseguente e decisivo processo di identificazione del movimento comunista con lo Stato sovietico.

7. Gramsci, benché fosse parlamentare, venne arrestato dal fascismo all'inizio del novembre 1926.
In carcere Gramsci non abbandonò mai il suo sentirsi parte del movimento comunista. Cercò di interrogarsi sui motivi della sconfitta subita dal movimento comunista negli anni Venti.
Prese così avvio una riflessione originale sul potere nelle società complesse. Egli elaborò una nuova concezione dello Stato, che definiva «Stato integrale», insieme di struttura e sovrastruttura, coercizione e consenso, società politica e società civile. (Su questo torneremo nei prossimi giorni).
Vi era una radicale differenza dei paesi “occidentali”, capitalisticamente avanzati, con la Russia del 1917. Scrive a questo proposito Gramsci:
«In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile»[25].
E Gramsci ritenne necessario elaborare anche un modello di rivoluzione molto diverso dalla Rivoluzione d’Ottobre (anche su questo torneremo nei prossimi giorni).
La volontà di cambiamento non perdeva il suo ancoraggio di classe, il suo cuore nel mondo economico e dei rapporti sociali, ma coglieva tutta la complessità dell’azione politica moderna, in una società moolto diversa da quella russa del 1917.
Come vedremo, uso dire che Gramsci rivoluziona il concetto di rivoluzione.
In tutto ciò, però, l’ammirazione e il rispetto per la Rivoluzione d’Ottobre, e per l’Unione Sovietica, non vennero mai meno.
Gramsci morì nel 1937 nell’Italia fascista, e solo in parte ebbe comprensione di come si fosse evoluto il “paese dei Soviet”, anche se si può ritenere che molti degli elementi di fondo gli fossero noti.
Nonostante tutto, egli sapeva che dalla Rivoluzione d’Ottobre era iniziata una nuova storia, una storia di resistenza e di liberazione, per milioni di donne e di uomini.
Era iniziata la lotta contro l’oppressione, una “rivoluzione contro il capitale”, per comprendere e adeguare i «fatti economici» alla volontà degli uomini, per non farsi dominare da essi – come aveva scritto nel dicembre 1917 –, e questo il rivoluzionario Gramsci non poteva dimenticarlo.




[1] Questo e gli altri principali scritti gramsciani di questo periodo sono raccolti in Antonio Gramsci, Masse e partito. Antologia 1910-1926, a cura di Guido Liguori, Editori Riuniti, Roma, 2016.
[2] Antonio Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, «Il Grido del Popolo», 29 aprile 1917, ivi, p. ..
[3] Ivi, p. 35.
[4] Cfr. su questo R. Medici, Giacobinismo, in F. Frosini, G. Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci, Roma, Carocci, 2004, pp. 113 ss. Nei Quaderni del carcere il giacobinismo sarà una vera e propria categoria teorico-politica, non solo storiografica, e avrà una coloritura decisamente positiva, in relazione alla capacità, propria dei giacobini come dei bolscevichi, ma anticipata teoricamente anche da Machiavelli (in cui perciò si vede un «giacobinismo precoce»), di stabilire una alleanza tra «città» e «campagna».
[5] Cfr. G. Sorel, Considerazioni sulla violenza [1908], Bari, Laterza, 1974, pp. 149-58.
[6] A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 35.
[7] Ibidem.
[8] Antonio Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, cit., p. 36.
[9] Ivi, p. …
[10] Ivi, p…
[11] Cfr. Antonio Gramsci, Il compito della rivoluzione russa, «Avanti!», 15 agosto 1917, infra, pp. …
[12] Cfr. Antonio Gramsci, Kerensky e Lenin, «Il Grido del Popolo», 25 agosto 1917, infra, p. …
[13] Antonio Gramsci, La rivoluzione contro «Il Capitale», «Il Grido del Popolo», 1° dicembre 1917, infra, p. …
[14] Ivi, p. …
[15] Ivi, p. …
[16] Ivi, p. …
[17] Per un approfondimento di questi temi, mi permetto di rinviare di nuovo al mio Teoria e politica nel marxismo di Antonio Gramsci, cit.
[18] Cfr. ivi, pp. 249 ss.
[19] Lettera di Gramsci al Comitato centrale del Partito comunista russo, 14 novembre 1926, firmata «L’Ufficio politico del PCI», infra, pp. ….
[20] Ivi, p. …
[21] Cfr. Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, ora in Id., Masse e Partito, cit., pp. 366-88.
[22] Il termine, in uso ai vertici della Terza Internazionale, indicava proprio la capacità di direzione dei contadini da parte della classe operaia e del suo partito. Esso divenne soprattutto a partire dai Quaderni una ben più complessa categoria teorico-politica, profondamente rielaborata da Gramsci.
[23] Lettera di Togliatti a Gramsci, 18 ottobre 1926, infra, pp. ….
[24] Lettera di Gramsci a Togliatti, 26 ottobre 1926, infra, pp. …
[25] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 866.

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